E' un giorno d'estate del 1906 ed Emily Carr passeggia sulla spiaggia della costa occidentale dell'isola di Vancouver. Il paniere col cibo al braccio, il berretto che sbatacchia al vento, Emily non si stanca mai di guardare il villaggio di Hitats'uu, disteso sotto un delicato velo di vapore.
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E' felice di trovarsi nella terra dei Nootka, là dove la foresta e il mare si danno la mano, e i cedri e gli abeti, sferzati dalle onde e profumati d'alghe e di spruzzi salini, lottano per conquistare lo spazio, scuotono i rami e premono a ridosso delle case. Ogni artista, si sa, ha il suo demone, la forza impetuosa che lo separa dal resto del mondo e costituisce la fonte più vera della sua ispirazione. Il demone di Emily Carr, pittrice e donna alla ricerca del cuore selvaggio della vita, è il bosco dell'isola di Vancouver, la foresta pullulante e minacciosa, popolata dai discorsi dei corvi e da altri segreti, da case fatte di cedro e scorticate dalle intemperie fino a diventare di un meraviglioso color argento, da tribù nobili e fiere. Emily è nata a San Francisco e l'ha trovata meschina, è stata a Londra e si è sentita soffocare. Ha percorso le Montagne Rocciose sulla Canadian Pacific Railway, trattenendo il fiato di fronte alla potenza delle cime frastagliate, ha galoppato a pelo in un ranch del Western Cariboo, sventolando il cappello e lanciando grida sotto il cielo immenso. E' tornata nel salotto inamidato e cosparso di centrici della sua casa natale di Victoria e non vi ha trovato altro che ipocrisia e pregiudizi. Solo nella foresta dell'isola di Vancouver, in quel luogo grondante di succhi vitali, il posto più selvaggio, più libero e seducente della terra, lei, l'amante del bosco, l'amica degli indiani e perchiò, secondo sua sorella Dede, "la disgrazia della famiglia", ha scoperto il suo mondo, il paesaggio ideale della sua arte. Vera e propria icona, prima di Georgia O'Keeffe e Frida Kahlo, dell'arte del secolo scorso, Emily Carr nacque in Canada, nella Columbia britannica. Appartenente al celebre Gruppo dei Sette, artisti canadesi che propugnavano un ritorno della pittura alla bellezza della natura, Emily, come Artemisia Gentileschi e come numerose altre donne protagoniste della storia dell'arte, condusse un'esistenza segnata dal drammatico conflitto con le ottuse convenzioni sociali e i pregiudizi dell'epoca. Lei, donna bianca della buona società vittoriana, amava vivere tra le tribù indiane della Colombia britannnica, e condividerne lo stile di vita "selvaggio". Il ritratto di una donna che cercava di catturare nell'arte il cuore selvaggio della vita.. - Ritratto indimenticabile di un'artista la cui vita è stata segnata dal conflitto con le ottuse convenzioni sociali e i pregiudizi dell'epoca.. - Susan Vreeland ci offre il ritratto di un’artista la cui vita è stata segnata dal conflitto con le ottuse convenzioni sociali e i pregiudizi dell’epoca. Vera e propria icona (prima di Georgia O’Keeffe e Frida Kahlo) dell’arte del secolo scorso, Emily Carr (1871-1945) condusse un’esistenza scandalosa per il suo tempo: donna bianca della buona società vittoriana, visse tra le tribù indiane della Columbia britannica, e fece suo il loro stile di vita «selvaggio e pagano». Attorno alla figura dell’artista, sfilano, in queste pagine, i personaggi che hanno segnato la sua vita: Sophie, la coraggiosa donna squamish che ha perduto i suoi figli per le malattie trasmesse dai bianchi; Harold, il figlio di missionari che abbraccia la cultura indigena; Fanny, l’artista che condivide con lei un’estate nei boschi; Claude, il francese che le ruba il cuore.